Sweeney Todd, *.*

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~Angel
view post Posted on 28/2/2008, 21:36




testimone di falso :bub:
 
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§_DaRk_Ic£_§
view post Posted on 28/2/2008, 21:38




:asd:
 
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SPIRITNEVERDIE
view post Posted on 29/2/2008, 23:33




a me nn è piaciuto il genere cantato nn mi appartiene....poi il sangue sembrava vernice
 
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§_DaRk_Ic£_§
view post Posted on 1/3/2008, 08:38




bèh mica può essere vero :sisi: cmq, si è vero che è stato trpp cantato, ma johnny depp ha una voce... dovrebbe fare il cantante :sisi:
 
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~Angel
view post Posted on 1/3/2008, 21:45




nn sn d' accordo. il cantato per me era giusto, il sangue magari trp poco realistico.
 
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§_DaRk_Ic£_§
view post Posted on 2/3/2008, 08:28




beh sul poco realistico concordo cn te
 
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|Death|Angel|
view post Posted on 2/3/2008, 19:03




waaaaaaaaaaaaa l'ho visto ieri!!
SPOILER (click to view)
la prima sgozzatura, quella del tizio Pirelli è stata scioccante!!
nn me l'aspettavo così esplicito sto film!! però è prioprio tipico di Burton fare film così particolari...Edward mani di forbice...poi questo Sweeney Todd...
bellissimo tra l'altro, Johnny ha una voce bellissima...il sangue però è troppo diluito, sembra acqua e tempera rosa...invece dovrebbe essere rosso scurissimo!!

Edited by ~Angel - 2/3/2008, 19:09
 
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Oo.°NaKaMuRa°.oO
view post Posted on 20/4/2008, 15:38




io nn lho visto :\
sembra xò del genere k piace a me :sisi: tnt sangue :bib:
 
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.:soraxs:.
view post Posted on 4/5/2008, 13:13




io ho trovato questo se vi può essere utile

SPOILER (click to view)
In una cupissima Londra di metà ottocento, il barbiere Benjamin Barker cerca la sua sanguinosa vendetta contro l’uomo che lo ha separato dalla sua famiglia.

Recensioni








Tutti meritano di morire. L'assioma desolato e furioso del barbiere Sweeney Todd (ex brav'uomo ora assetato di vendetta) e la logica, conseguente carneficina scatenata dai suoi fedeli rasoi segnano il campo per il macabro ritorno di Tim Burton. Il film, quasi interamente cantato, adatta un celebre musical scritto da Stephen Sondheim: il buon Barker, abile barbiere, è ingiustamente accusato, condannato e deportato all'altro capo del mondo per il capriccio passionale del giudice Turpin, che vuole per sé la bella moglie di Barker e la loro figlioletta. Dopo quindici anni, Barker riesce a tornare a Londra sotto falso nome, per cercare la sua vendetta. Ma il suo proposito esplode presto in un irresistibile delirio misantropo e annichilatore: chiunque metta piede nella sua bottega è presto sgozzato, macellato, tritato e usato per farcire le torte della complice Mrs Lovett, innamorata del demoniaco Todd. E il negozio di Mrs Lovett trabocca subito di affamati, innocenti, cannibali.
I feticci Depp e Bonham Carter s'intonano con la solita empatia all'umore scurissimo e grottesco del quadro, sfoggiando anche passabili doti canore (migliori quelle di Depp, senza dubbio). Sacha Baron Cohen condisce di frizzante energia una piccola parte della pellicola; la migliore performance attoriale e musicale (ed una delle migliori di quest'anno 2007 che si è chiuso) è quella del giovanissimo Ed Sanders, nelle vesti dell'ignaro aiutante di Mrs. Lovett, Toby. L'intera squadra si cimenta in liriche complesse: musical arty che non lascia troppo spazio ai ritornelli facili e alle spettacolosità roboanti frequenti nel genere. I sotterranei della bottega di Mrs Lovett ribollono di verità agghiaccianti: l'uomo divora l'uomo. E la follia vendicatrice giunge sino all'orrore più impensabile. O quasi.
Burton è autore classico. E reinventa operette morali con un'audacia pop che in pochissimi autori mainstream possono permettersi. L'irrituale (e un po' furba) scelta veneziana di conferirgli il premio alla carriera a soli cinquant'anni registra in effetti un fatto semplice: con una manciata di lungometraggi, Tim Burton ha creato un paradigma inconfondibile che incrocia intelligenza visiva, riconoscibilità autoriale, coerenza tematica e appeal pop come pochissimi altri cineasti contemporanei. L'impasto burtoniano, fatto di atmosfere, colori, musiche, ossessioni seriali, stramberie empatiche e inquietudini sottopelle, è riuscito, nei casi migliori, a inventare un tipo di fabulazione efficacissima nonostante le frequenti anemie dei plot: uno storytelling interamente fatto di visioni - di vivo, vissuto e sentito cinema - malgrado e contro gli inceppamenti, i tentennamenti, le ottusità di alcuni meccanismi narrativi. Alcuni snodi un po' banali dell'intreccio del primo Batman, certi motivi pigri o automatici di Edward Mani di Forbice, le cadute di ritmo di Ed Wood, le forti incertezze de Il Mistero di Sleepy Hollow incidono poco o nulla sulla capacità dell'opera di costruire e vivificare "storie". E, al di là degli obbrobri palesi come Il Pianeta delle Scimmie, l'opera di Burton vacilla, dopo il miracolo di cinque autentici capolavori in sette anni (Batman, Edward, Batman Returns, Ed Wood e Mars Attacks), proprio quando il Nostro prova a spostare il suo discorso dall'immagine alla parola (il sopravvalutato Big Fish).
Con Sweeney Todd, Burton prova a sviluppare gli eleganti esperimenti eclettici tentati negli ultimi anni. Il virale, deviante (e sottostimato) La fabbrica di cioccolato sembrava suggerire una trasfigurazione del modello Burton, una feconda (almeno in potenza) alternativa al prodotto in cui il Nostro sembrava essersi rifugiato per continuare a coltivare le sue ossessioni più autentiche: i lavori in stop motion (con un primo risultato notevolissimo e un secondo alquanto fiacco). E Sweeney Todd si traveste proprio da film animato, provando a combinare la fibrillazione farsesca piu' gore e il gotico fiabesco cantato dai pupazzetti di Burton & Selick: una scenografia iperdisegnata, trucco e costumi sopra le righe, mood nero e romantico, canzoni, elementare gioco di sentimenti e idee morali, oscillazione tra farsa e dramma. Tutto è costruito a forma di favola in plastilina. Ma il sangue scorre a fiumi, le carni di colpevoli e innocenti sono frullate e ingoiate dai concittadini e i macchinari in cui lo strambo Wonka faceva scorrere cioccolato si riempiono, nei titoli di testa di Sweeney Todd, di vischiosissimo liquido rosso. Le debolezze narrative restano, come se il buon Tim, eccitato dalla magia del cinema, proprio come il suo Edward D. Wood Jr., fosse piu' interessato alla successiva invenzione visiva che alla struttura drammatica dell'insieme. Ma, come nel miglior Burton, queste mancanze sono interamente riscattate da un intenso concerto di colori allegramente neri, movimenti, plasticità teatrali ravvivate da una macchina da presa in gran forma. La pratica truculenta dell'antiumanità, dopo un rapido gioco identificatorio, lascia spazio a risoluzioni morali classiche: il nostro sguardo danza con la macchina da presa di Burton e si poggia consapevole, infine, su una intensa Pietà grandguignolesca grondante sangue. Tutti noi meritiamo di morire. Ma forse la giustizia opera per vie semplici. Come nelle favole.

Roberto Tallarita
pubbl. 14-01-2008

Depp(’s) Throat(s)

Tredicesimo film in carriera per Tim Burton, Sweeney Todd è una storia di equivoci e vendetta, nella quale i personaggi si rincorrono, si sfiorano, si perdono su modello dei più classici intrecci narrativi, dalla commedia greca in poi. Il buio di un’inquieta Londra vittoriana fa da sfondo alla dolorosa vicenda del barbiere di Fleet Street, lacerato da un passato crudele e artefice di un “castigo” che finirà per ripercuotersi su se stesso. Dopo circa dieci anni Burton ha recuperato i vecchi appunti “in incubazione” e ha messo mano a una rielaborazione dei temi e delle atmosfere dell’omonimo musical nato dalla collaborazione fra Hugh Callingham Wheeler e Stephen Sondheim (datato 1979). La vicenda storica del barbiere Sweeney Todd (da collocarsi nel Settecento e non nell’Ottocento come suggerisce il film) si colora di tinte macabre che attingono ai classici motivi dell’horror: dai titoli di testa fino alla sequenza finale Burton definisce i personaggi, presentandoli come ordigni in procinto di esplodere. La musica accompagna la narrazione e si costituisce in un’unità quasi fisica: più vicino all’ “ortodossia” del musical di Broadway che ad alcune trasposizioni cinematografiche dei classici della commedia musicale americana e non solo, le sequenze cantate del film non sono innestate in una parentesi dialogica o in uno spazio descrittivo, ma rappresentano il naturale sbocco delle situazioni, si trasformano in una valvola di sfogo che dà voce ai sentimenti e alle contraddizioni che ribolliscono nel substrato narrativo. La chiave estetica del film trova il suo tratto distintivo nella desaturazione dell’immagine, esaltata dalla fotografia di Dariusz Wolski che scava nei toni lividi del grigio plumbeo delle ambientazioni, gioca con i richiami di ombre che si inseguono fra le pieghe dei ricchi vestiti, nelle capigliature scomposte, negli sguardi cerchiati di nero (i cromatismi di Sweeney Todd ricordano sicuramente più l’esperienza de Il Corvo, che i più recenti capitoli della saga Disney sui Pirati dei Caraibi, giusto per citare alcuni dei lavori cui ha partecipato Wolski) Burton tenta di tradurre in chiave sanguinolenta (e a tratti vagamente splatter) le atmosfere buie de La Sposa Cadavere, succhiandone via la chiave “giocosa” e lasciando spazio al grottesco, che trova particolare espressione nella sentimentalmente perfida Mrs Lovett. Il risultato è un musical di dissonanze, il cui obiettivo primario sembra essere la costruzione di personaggi la cui natura è strettamente legata al contesto nel quale vengono inseriti: i personaggi non subiscono particolari “evoluzioni” e fondamentalmente restano ancorati alla propria tipicità, salvo trovarsi al centro di un’impetuosa tempesta “etica” che li fa sbalzare ora dalla parte del bene, ora da quella del male. A prescindere dalla tipizzazione dei personaggi, è da sottolineare l’importante definizione del contesto all’interno del quale inserire la storia: Londra è un mosaico di situazioni che sfiorano la tradizione letteraria, da Dickens in poi, e la ricostruzione scenografica (premiata con l’Oscar) non fa che esaltare la torbidezza di una città dall’eco neogotica che si snoda fra vicoli stretti, bettole e prostitute. E se è praticamente impossibile non scorgere in alcuni passaggi di Sweeney Todd riflessi del passato burtoniano (le taglienti lame di Edward Mani di Forbice come il barbiere che percepisce finalmente completo il proprio braccio solo quando impugna i suoi rasoi), è interessante constatare come ancora una volta il regista americano si dedichi ad un personaggio “doppio”, combattuto fra le difficoltà del presente e un passato ancor più doloroso (senza volersi addentrare troppo lontano nel tempo, basti pensare al suo adattamento de La fabbrica di cioccolato), un personaggio che addirittura si cela dietro un’identità fittizia che gli consenta di agire nell’ombra. Se questo in una figura come Batman può trasfigurare nella classica tipizzazione dell’eroe, Sweeney Todd si allontana dall’aspetto “edificante” della figura salvatrice e rivela la sua natura anti-eroica che ricalca in qualche misura lo sconvolgimento emotivo e la delusione per il mondo circostante manifestata in passato nella figura dell’eroe romantico, sconfitto per eccellenza, stabilendo dunque sotto questo punto di vista un contatto più solido con figure quali il Joker e il Pinguino. Così come allora nel raccontare le gesta dell’Uomo Pipistrello Burton concentrava la propria analisi sottilmente ambigua e oscura su personaggi solo apparentemente secondari, caratterizzati da marcati squilibri nei rapporti interpersonali, ora in Sweeney Todd il regista incontra una nuova personalità che traduce un dramma subito in un implacabile e cieco sterminio. Burton offre ai dizionari di cinema un nuovo titolo da inserire nelle opere che traggono ispirazione dalla tematica della vendetta: il sapore di Sweeney Todd però nasconde in sé un retrogusto amaro che nasce dalla consapevolezza di un colpo meno fermo di quanto ci saremmo potuti aspettare. I pasticci di carne racchiudono la testimonianza di un’indicibile violenza. Gli schizzi di sangue mettono la firma sulle tendenze omicide e autolesioniste di un’umanità allo sbando.

Priscilla Caporro
pubbl. 27-02-2008

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Tim Burton, il remake

Sweeney Tood è cugino de Il pianeta delle scimmie e La fabbrica di cioccolato, ma neanche lontano parente di Big Fish e La sposa cadavere. Per la produzione di mr. Burton nel terzo millennio, infatti, è concesso tornare alla grinzosa ripartizione: “film personale” e “film su commissione”. Il primo vibra profondo alle melodie dell’autore, l’altro strimpella le solite note, incassa e sorride, ringrazia e pensa a domani. Accogliendo la limitatezza di tali caselle – a esempio: tutti i lavori risultano derivativi, chi da un romanzo, chi da una fiaba -, costringendo questo cinema proteiforme in dimore anguste, sembra il caso di sistemare la pratica nel secondo settore. Burton contro il musical: uno show semplice, dal tratteggio archetipo e primitivo (My friends = Todd ai rasoi come il condottiero alla spada, siamo nel cavalleresco), pieno di superfici riflettenti screpolate, perché ogni specchio incrinato è la forma stravolta del passato, e di agnizioni sempre decifrabili, concettualmente legate al “disvelamento dell’identità” e “rovesciamento narrativo”. La manipolazione del regista, ulteriormente favolistica, rende i caratteri imbullonati sugli attori (e il contrario) e finge figure plausibili, che in realtà sono traduzioni piane di modelli mitici come la vendetta (Todd), l’amore inevaso (Mrs. Lovett), l’infanzia olivertwistiana (Toby) ecc.
Nei capillari, seppure mimetizzato da inizio della favola, c’è ancora lo storytelling: la pratica di raccontare e le sue articolazioni soggettive, estrinseche nelle prime parole del barbiere (Todd espone il torto patito, più che al marinaio a noi tutti, offrendone la sua versione); e torna il differimento della morale, a fin di bene, con costruzione di un nuovo campo di codici dove il requisito sinistro e perverso domina a logica invertita. Non solo i protagonisti sono criminali, ma anche agenti di “riordino sociale” attraverso il metodo della beffa: se “uomo mangia uomo”, dunque, è lecito realizzare questo postulato con le delizie antropiche di Mrs. Lovett, e se resiste il grave dualismo Alto/Basso è il caso di rivoltare il tavolino e rivolgere l’ammazzamento, come dato insano ma anche egualitario, all’intera collettività universale. A conseguenza estetica, qui più che mai, la legge burtoniana della “morte allegra”: omicidi positivi (crepano i nobili e scampano gli umili), affascinanti scannamenti, preoccupante godimento del pubblico nell’osservarli. Burton fa Burton, nessuna novità. E stavolta, malgrado la traccia combaci precisamente col suo artigianato dark, il regista sconta la doppiezza di risultato; da una parte lo scherzo, l’episodio, la trovata, all’insegna della consueta mostruosità (la masquerade del bimbo, i modi di Beadle Bamford e tante circostanze da Addams Family), dall’altra la reale costruzione di senso e la chiusura effettiva del discorso. Lo scarto autentico, al solito, sta tutto nell’avanzare della peculiare indagine figurativa: la programmazione di un’altra lingua cinematografica. Se in animazione la tecnica stop motion è già un alfabeto diverso, per i film “in carne e ossa” Burton stufo della pellicola punta sulla fonetica organica: dall’impasto dolciario alla fantasia ematica, sono entrambi inchiostri validi per stendere la propria partitura. Lampo di genio: lo sgozzamento non consente di parlare ma il sangue lo permette di nuovo, a suo modo. Ancora, però, pesa la zavorra degli effetti: il film aggiorna, ripropone, varia il tema ma incombe il remake (i titoli di testa esattamente come Charlie and the Chocolate Factory – cambia l’ingrediente, chi se ne accorge?). Decisiva eccezione, i 10 minuti finali. Con furiosa virata tragica (dentro c’è Eracle e molto altro), il film apre a una catena di recisioni tracheali, ovvero tagli all’idioma dominante, nuove lettere che gocciolano dalla gola/sorgente, già autosufficienti, con significati propri. Non più inchiostrare la storia ma personalizzare i pigmenti dell’inchiostro. In questo momento, con Depp grandinante, in posa cristallizzata, Sweeney Todd è davvero scritto con il sangue. Solo in questo, purtroppo.

Emanuele Di Nicola
pubbl. 22-02-2008

Spazio lettori






Se qualche critico incauto azzarda definendola "opera poco coraggiosa" o "di una spropositata lentezza" spesso la prima giustifica è :"Che vuoi farci? D'altra parte è un musical no? Nemmeno fra i più brillanti". Tutti addosso al librettista dunque, il povero Callingham Wheeler e al compositore di queste 'ariacce' poco orecchiabili , Stephen Sondheim. Il perché "Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street" abbia vinto sette Tony Adward nel 1979 è dunque un mistero insoluto? Burton fa a botte con Broadway, ma la vittoria non è così scontata. Consiglio pertanto ai detrattori dell'opera musicale pura, quella che muove i suoi passi sulle tavole del palcoscenico, di acquistare il dvd della più celebre versione di Sweeney, interpretata da quella che abitualmente cade nel cliché della "Signora in giallo", la grande Angela Lansbury , nonchè da uno strepitoso George Hearn. Purtroppo non credo sia possibile rinvenire l'edizione che vede brillare l'istrionica Patty LuPone nelle vesti di Miss Lovett.
L'errore di Burton è quello di riciclarsi all'eccesso. Operazioni del genere talvolta funzionano come una trappola facendosi marchi di genialità. In questo caso il regista si è legato le mani da solo.
Cos'è che non funziona dunque? C'è una città, quella Londra grigio fumo magnificamente ricostruita da Dante Ferretti. La commistione fra reale e cartoon può anche starci, è credibile. Tutto il contorno rasenta o quasi la perfezione.
Perché Burton ha sbagliato? La risposta è semplice ma non ovvia. Per trovare una risposta è necessario attingere ai palcoscenici di Broadway perché solo da questo presupposto è estraibile una chiave di volta che abbia senso.
Burton ha voluto stravolgere le connotazioni di base dei personaggi, protagonisti in primis, così come delineati da Wheeler per Sondheim e non a caso. Sweeney è un barbiere, un uomo del popolo: parla e si muove come tale. Burton ne ha fatto un eroe romantico, forse mal vestito, ma di nobile cipiglio. Se paragoniamo l'interpretazione di Burton a quella di Hearn (vedi sopra) a vincere è senza dubbio il secondo. Ma Deep sa il fatto suo ed è più che credibile nei panni del diabolico barbiere, visibilmente a suo agio nelle vesti ritagliate su misura per lui dall' amico di vecchia data: un feticcio a metà tra Edward mani di forbice e il vendicatore senza testa di Sleepy Hollow agghindato per l'occasione di un'acconciatura retro che rimanda alla più nota versione de "La moglie di Frankenstein" di James Whale.
Deep è la versione 'giovanile' di Sweeney, tant'è che o per scelta o per la qualità di timbro del divo, da baritono che doveva essere si è fatto 'tenorino' roccheggiante.
Perché dopo aver così stravolto (a ragione o torto) il protagonista, sconvolgere del tutto un personaggio unico e irripetibile come quello di Miss Lovett dunque? A teatro se qualcosa funziona si mantiene; la minima variazione può sconvolgere l'equilibrio stabilito nel gioco tra i caratteri. Il rapporto Sweeney-Lovett funziona per opposti, ma non nel senso che Burton ha voluto esprimere. Miss Lovett è la versione settecentesca della strega di Hansel e Gretel tant'è che alla fine perisce egualmente, arrostita nel forno per le torte. Ma Miss Lovett è anche e soprattutto l'antitesi dell'interpretazione misurata forniteci dalla Carter. Donnone gioviale all'eccesso, sguaiata, grottesca, si muove sempre o quasi sopra le righe: maschera comica capace di mescolare humor nero a gag esilaranti. Miss Lovett è l'antitesi di Todd. Per questo il duetto funziona a Broadway. Per questo non funziona nell'opera di Burton. Ci si chiede se Tim abbia intenzione in futuro di provinare altre attrici all'infuori della pur talentuosa moglie che qui si dibatte come un pesce fuor d'acqua.
Una menzione particolare alla prova d'attore fornitaci da Thimoty Spall , magnifico nel riproporre il laido tirapiedi del giudice Turpin.


Edited by ~Angel - 4/5/2008, 15:18
 
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